La storia che sto per narrarvi è tratta da un antico codice marciano e fu pubblicata per la prima volta nel 1869. Ha per protagonista una bambina, di nome Marina, rimasta orfana di madre sin dalla nascita. Il padre, impossibilitato ad allevarla da solo, la affidò a dei parenti, mentre lui – uomo molto pio – si sarebbe ritirato in convento.
Trascorsero alcuni anni, Marina divenne una bella fanciulla. Il padre – che aveva abbracciato i voti – era vissuto fino ad allora con il senso di colpa per l’abbandono della sua piccola. Un giorno confidò il suo tormento all’abate: «Ciò che tormenta il mio animo ha un nome, Marino. È mio figlio, che ho lasciato anni fa quando decisi di ritirarmi in convento». Il frate, falsando evidentemente la realtà, raggiunse il suo scopo, ottenendo dall’abate il permesso di portare il ragazzo al convento: «Va’ da lui e portalo qui. Lo accoglierò come un monaco del mio convento».
Inizia così la storia di Marina, che visse tranquilla per tanti anni in convento, conosciuta dai confratelli, e da tutti, come frate Marino.
Accadde che la figlia di tale Pandaccio – proprietario del posto di rifornimento dove i frati del convento si servivano per i viveri – rimanesse incinta, dopo essere stata sedotta e abbandonata, da un cavaliere. Spaventata dalla reazione dei genitori quando si accorsero del suo stato, non volle fare il nome del vero responsabile: mentì, inventandosi che era stata violentata da un giovane frate, una notte che questi aveva pernottato presso la loro abitazione, prima di ripartire alla volta del convento.
Pandaccio si recò allora al monastero e denunciò il fatto all’abate, il quale – fatto chiamare Marino innanzi a sé – chiese se quanto riferitogli corrispondesse a verità. Il giovane frate rispose semplicemente: «la verità la conosce il Cielo. Se ho sbagliato sono pronto a fare penitenza». E così fu. L’abate volle punirlo cacciandolo dal convento.
Da quel giorno Marino visse elemosinando alle porte del monastero. I confratelli, vedendolo piangere e affliggersi si convinsero ancora di più della sua colpevolezza.
Ma i problemi per il giovane non erano finiti. Quando la figlia di Pandaccio partorì, la madre le tolse il bambino e lo portò a Marino perché se ne occupasse. E Marino se ne occupò, nutrendolo con il cibo che gli passavano i frati, che gli erano rimasti affezionati.
Trascorsero gli anni. Un giorno l’abate fece chiamare Marino: «Grazie alle preghiere degli altri fratelli ho deciso di farti rientrare, insieme con il tuo piccolo frutto di adulterio. Ma ti sarà consentito di rimanere nel monastero solo a condizione che tu continui a fare penitenza: spazzerai e pulirai il convento, raccoglierai l’immondizia; fornirai il convento dell’acqua necessaria e riparerai i calzari dei frati».
Qualche giorno dopo Marino morì. L’abate interpretò la morte del frate come un segno di Dio «che non ha voluto concedergli penitenza, lasciandolo piuttosto morire». Dispose quindi che fosse sepolto cristianamente «ma non vicino alle tombe degli altri monaci e lontano dal monastero».
Quando i monaci spogliarono Marino delle sue vesti, per lavarlo prima di procedere al rito della sepoltura, come da tradizione, restarono stupiti. Marino era in realtà una donna.
Secondo la presente versione – ne esistono infatti altre – la storia si conclude con l’abate che, pentito, chiede perdono a Dio per tutto ciò che ingiustamente aveva fatto subire alla giovane creatura.
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Mario Tasca
Ma….ne sai una più del diavolo!! Questa bellissima storia per me è una scoperta!
angela rotundo
Dovremmo conoscere di più la vita dei santi che sono tutte belle, questa non la conoscevo mi è piaciuta tanto grazie Biagio
donata
molton bella grazie