Come uscita dal torchio

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Quando si parla di incisioni, spesso sul volto di alcuni interlocutori si legge una certa perplessità associata a confusione. Per esempio, non è raro incontrare persone che parlano della litografia come un’incisione (che non è) o che confondano una xilografia (che è un’incisione in rilievo) con un bulino o un’acquaforte (che sono incisioni in cavo).

Non voglio fare una lezione sulle tecniche incisorie che, peraltro, sono sicuro servirebbe a poco. Piuttosto voglio “farvi toccare con mano” (si fa per dire!) una vera incisione calcografica, una cosiddetta incisione in taglio dolce, risalente alle origini del santino, ovvero intorno alla fine del XVI secolo.

Sto parlando di una matrice di rame originale, scolpita da Adrien Collaert (1565?-1618) su disegno di Maarten de Vos (1532-1603). Avete letto bene: “scolpita”. Non a caso, sulle incisioni calcografiche è spesso riportato il termine “sculpsit” seguito dal nome dell’incisore.

Sì, perché in realtà l’incisore quando realizza l’opera, scolpisce. Con uno strumento che si chiama bulino. L’incisore scava i solchi sulla matrice metallica e realizza il disegno. Alla fine, la matrice viene consegnata al tipografo, che la monta sul torchio (notate i fori ai lati). Quindi viene inchiostrata per essere impressa sul foglio.

Il risultato è l’incisione. Sì, anche l’immagine impressa si chiama incisione.

Nella calcografia, i segni incisi sulla carta (o sulla pergamena) derivano dai solchi inchiostrati, a differenza dalle xilografie, i cui segni vengono impressi dai rilievi (più o meno come accade con i timbri).

Ora osservate per un momento l’immagine  (cliccate sopra per ingrandirla) e pensate quali abilità dovevano avere gli incisori, per realizzare anche i più piccoli dettagli.

Devo confessarvi, infine, che avere fra le mani una lastra originale di fine Cinquecento, incisa da uno dei più abili incisori/editori fiamminghi, è un’emozione che non ha prezzo.

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