Riprendo a scrivere dopo la lunga pausa delle festività natalizie, che mi auguro abbiate trascorso nel migliore dei modi, mostrandovi un santino di particolare interesse. Non tanto dal punto di vista iconografico, quanto per la sua funzione e per l’utilizzo che ne è stato fatto.
Il santino in questione, stampato a metà del secolo scorso in fototipia, raffigura una moltitudine di giovani gioiosi perché protetti dalla Madonna, che appare in alto su di loro. In primo piano si possono notare tre santi adolescenti: da sinistra, Santa Maria Goretti, San Luigi Gonzaga e San Domenico Savio.
Ma, come accennavo, l’aspetto più interessante – come spesso accade – è dato dal verso del santino, utilizzato per scrivere un testo di ringraziamento a un benefattore che aveva inviato un’offerta di Lire 2000 a un sacerdote missionario a Limon, in Equador. Dice testualmente il testo:
Sig. (ometto il nome per questioni di privacy)
Limòn (Equatore) 24 Marzo 1956
Grazie di vero cuore della sua generosa
offerta di L. 2.000 in pro di questi miei
poveri selvaggetti. Quanti sudori e sacrifici
per far di loro dei buoni cristiani, per formare
famiglie cristiane! Il demonio coi suoi stregoni
ci ostacola in tutti i modi. Maria Ausiliatrice
lo vincerà e strapperà queste anime schiave sue.
Riconoscente porgo ossequi. Suo Ambrogio.
Mi ha colpito molto questo testo perché dimostra come ancora nel 1956 – dunque non ai tempi della colonizzazione dei cattolici spagnoli nel XVI secolo – la Chiesa considerasse questi territori popolati da selvaggi senza Dio e che bisognava “far di loro dei buoni cristiani”.
Proprio l’espressione “poveri selvaggetti”, se da un lato sembrerebbe esprimere quel senso di cristiana misericordia per i poveri e gli indifesi, dall’altro evidenzia una concezione antica, propria dei “civilissimi occidentali” nei confronti di quelle popolazioni lontane, considerate inferiori dal punto di vista sociale e culturalmente arretrate, poco importa che fossero figli di grandi civiltà, come quella Inca, nel caso specifico.
Non voglio provocare nessun dibattito, anche perché credo sia stato detto e scritto tutto sulla colonizzazione di queste popolazioni e del rapporto di queste con la Chiesa (ricordate il film “Mission”?).
Selvaggi, dunque, nel senso di arretrati e inferiori, giova ricordarlo, anche per quanto riguarda la razza: la loro pelle nera era un marchio indelebile.
E a proposito di pelle nera, vorrei ricordare che la devozione popolare annovera fra i suoi culti quello per la Madonna Nera. Si potrebbe aprire una lunga parentesi anche qui che però non c’è né lo spazio né la volontà di affrontare. Voglio però raccontarvi una leggenda legata al culto della Madona di Tindari, che penso tutti conosciate.
Narra la tradizione che una donna, con il proprio figlioletto, si recò un giorno a venerare la statua della Vergine di Tindari. Giunta che fu dinanzi alla statua, la donna rimase negativamente impressionata e spontaneamente esclamò: Haju vinuta da luntana via, ‘pi vidiri una ‘chiù brutta i mia! – Sono arrivata da lontano per vedere una donna più brutta di me.
A quel punto però accadde un fatto terribile. Il bambino che fino a poco prima era dalla mano della madre, a un tratto si trovò in balia delle onde del mare. La madre cercò di riprendere invano il bambino, il quale riuscì a salvarsi soltanto grazie all’intervento miracoloso della Madonna.
Chi ha osservato un’immagine di questa statua di origine bizantina, ricorderà che alla base di essa vi è la scritta: Nigra sum sed formosa. La traduzione letterale della frase, ripresa dal Cantico dei Cantici è la seguente: “Sono nera, ma bella“.
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