«Voler fissare visioni fuggitive, non soltanto è cosa impossibile… ma confina con il sacrilegio. Dio ha creato l’uomo a propria immagine, e nessuna macchina umana può fissare l’immagine di Dio. Egli dovrebbe tradire improvvisamente i suoi principi eterni per permettere che un francese, a Parigi, lanciasse nel mondo un’invenzione così diabolica» (da G. Freund, “Fotografia e Società”, p. 64).
Il 7 gennaio 1839 Daguerre rendeva pubblica la sua grande scoperta: il dagherrotipo. Tale nome, derivante ovviamente dal suo scopritore, stava a indicare una tecnica di riproduzione delle immagini, che grande fortuna doveva avere negli anni a seguire. Nello stesso anno, un articolo su un giornale tedesco chiariva la posizione della Chiesa in merito: un’invenzione diabolica.
Chissà cosa avrebbe scritto l’autore dell’articolo se – per assurdo – avesse potuto vedere, nel futuro, le attuali macchinette digitali o le fotocamere dei telefonini. Altro che sacrilegio!
Certamente, quando la fotografia fece la sua comparsa nel mondo della produzione artistica, suscitò grandi perplessità. In effetti, mediante un semplice clic, seppure molto più complicato e soprattutto più rumoroso di quelli di oggi,si riusciva a ottenere la riproduzione di un’immagine, per la realizzazione della quale un pittore, o un incisore, poteva impiegare anche qualche mese. Non a caso, il pittore Delaroche dichiarò che la fotografia costituiva la morte della pittura.
Nonostante la posizione contraria della Chiesa, gli editori di immaginette religiose utilizzarono quasi
subito la nuova tecnica. Le prime immaginette su fotografia risalgono alla metà dell’Ottocento. Incollate su cartoncino, apparivano, e appaiono ancora oggi, di un pallido colore seppia, che ha il pregio di documentare un’epoca passata.
A partire dalla fine del secolo, le tecniche fotografiche si perfezionarono. I colori, in particolare, divennero più definiti: al marroncino seppia si sostituì il nitido bianco e nero. Ciò fu possibile grazie all’impiego del bromuro d’argento. Un composto gelatinoso, e fotosensibile, veniva cosparso sulla carta, dove attraverso la camera oscura, era impressa l’immagine.
I santini al bromuro invasero il mercato fra gli anni 20 e 30 del Novecento, effetto di una grande crisi economica che indusse gli editori ad abbandonare tecniche di produzione antieconomiche, in primis la cromolitografia.
Oggi, non sono molto ricercati dai collezionisti filiconici, i quali – a quanto pare – sembrano preferire le più recenti tecniche fotomeccaniche.
Personalmente ritengo che i santini stampati a bromuro d’argento abbiano un fascino particolare. Oggi si possono trovare molto facilmente a prezzi davvero irrisori, a circa 1 Euro, e credo che un giorno saranno molto rivalutati.
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Mario Tasca
Sarà forse anche il ricordo del periodo militare (si diceva che col rancio ci dessero il bromuro…) ma anch’io sono affezionato a questo tipo di immaginette!
rotundo angela
L’articolo mi piace molto. Ho avuto modo di vedere delle immaginette fotografate ma erano molto sbiadite e non mi hanno entusiasmato.
Gianluca
Personalmente sono affascinato da questa tipologia di santini. Nonostante si tratti di fotografia è ancora la mano umana a dare l’ultima parola per la stesura definitiva del prodotto. Nella mia collezione hanno un posto speciale nonostante il loro valore storico o economico non si può equiparare a quello delle incisioni settecentesche o dei canivet manufatti dello stesso periodo.
Nel mio sito ne troverete una discreta carrellata:
http://www.gianlucalocicero.com/collezione-lo-cicero/monocromo-al-bromuro/